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Le nostre storie

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© ECDF/PR/berlin-eventfotograf.de

Andrea Cominola

Laureatosi nel 2013 in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio al Politecnico di Milano e addottoratosi nel 2017 in Ingegneria dell’Informzione, oggi Andrea Cominola, nonostante la giovanissima età, ricopre il ruolo di Assistant Professor alla Technische Universität Berlin e all’Einstein Center Digital Future, che a Berlino è noto anche come house of digitalization.

A Berlino dirige il gruppo di ricerca Smart Water Networks, che si occupa principalmente dello sviluppo di algoritmi basati sui dati e tecnologie digitali a supporto di processi decisionali sostenibili dal punto di vista ambientale, economico e sociale nell’ambito della gestione dei sistemi idrici urbani e, più in generale, nei sistemi uomo-ambiente.

Andrea, da quanto tempo sei a Berlino e qual è il percorso che ti ha portato alla tua posizione attuale?

Sono a Berlino dal 2018. Prima di trasferirmi qui sono rimasto al Politecnico di Milano per una decina d’anni. Ho iniziato nel 2007 e tre anni dopo mi sono laureato in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio con una tesi supervisionata dal Prof. Rodolfo Soncini Sessa. Proseguendo su questa strada, nel 2013 ho portato a termine il corso di laurea magistrale, sempre in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, con una tesi scritta sotto la supervisione del Prof. Andrea Castelletti. Parallelamente, ho frequentato l’Alta Scuola Politecnica, dove, oltre ad aver maturato competenze e conoscenze multidisciplinari, ho stretto rapporti d’amicizia che coltivo ancora oggi. Nello stesso anno ho iniziato il corso di dottorato in Ingegneria dell’Informazione, che ho concluso all’inizio del 2017, sempre sotto la supervisione del Prof. Castelletti e con il Prof. Matteo Giuliani in veste di co-supervisore. Dopodiché ho fatto un anno come ricercatore post-doc, durante il quale ho proseguito la ricerca iniziata con il dottorato e portato a termine le attività legate al progetto europeo SmartH2O.

In quel periodo hai avuto l’opportunità di fare alcune esperienze all’estero?

Oltre a un Erasmus in Norvegia, durante la stesura della tesi magistrale ho trascorso due mesi alla Penn State University in Pennsylvania con una borsa di studio del Politecnico e, nella “pausa” tra la laurea magistrale e l’inizio del dottorato sono stato un mese e mezzo a Seoul, presso la Korea University, dove lavora il mio controrelatore di tesi. Durante il dottorato, infine, ho passato circa sei mesi alla UC Davis in California. Da queste ultime collaborazioni, particolarmente fruttuose, sono nate anche alcune pubblicazioni scientifiche.

Ti sei sempre occupato di risorse idriche?

Sostanzialmente sì ma da punti di vista diversi in diversi momenti. La mia tesi triennale riguardava lo sviluppo di indicatori e modelli per comprendere come l’azione umana di regolazione del flusso in alcuni corpi idrici modificasse il regime idrologico naturale dei fiumi a valle rispetto alle condizioni naturali. Nella tesi magistrale sono rimasto nell’ambito delle reti fluviali ma ho adottato un approccio più teorico, sviluppando un framework in grado di simulare l’evoluzione dei bacini fluviali nel tempo secondo diversi criteri di ottimalità. Con il dottorato ho cambiato direzione e la mia attenzione si è rivolta alle reti idriche urbane. Il mio lavoro di tesi consisteva nello sviluppo di modelli comportamentali di utilizzo delle risorse idriche da parte di utenti residenziali. La ricerca faceva parte di un grosso progetto europeo che sfruttava i dati registrati da contatori digitali, i cosiddetti smart meter, installati in diverse abitazioni. In sostanza, i modelli che ho sviluppato servivano alla segmentazione dell’utenza, alla profilazione dei pattern di domanda e, di conseguenza, a fornire raccomandazioni per una gestione “personalizzata” della domanda idrica urbana. Un progetto davvero stimolante, in cui abbiamo integrato questi modelli anche con una app per mobile e un portale web “gamificato” per gli utenti. Rispetto alle mie ricerche precedenti, la scala era molto più piccola e dall’ambito naturale sono passato a quello urbano, che da allora è rimasto al centro dei miei principali progetti.

Perché hai scelto di fare un dottorato di ricerca e, successivamente, di proseguire con la carriera accademica?

Domanda difficile! Per certi versi è stato frutto di un susseguirsi di eventi capitati nei momenti giusti. Durante i miei studi non avevo l’ambizione di diventare un professore universitario, anche se alla fine è successo. Quel desiderio è arrivato dopo, ma, col senno di poi, direi che ci sono stati due fattori fondamentali nel determinare le mie scelte.

Il primo, che è stato forse il più importante nel decidere di fare il dottorato, è stato l’aver potuto conoscere, quando ero ancora uno studente di magistrale, il mondo nella ricerca. Soprattutto nei periodi che ho trascorso all’estero sono stato esposto a diversi input legati a questo mondo e ho capito mi sarebbe piaciuto entrare a farne parte. Il Prof. Castelletti già in quegli anni riusciva a coinvolgere molto gli studenti della magistrale nelle attività del suo gruppo di ricerca e la tesi prevedeva un’interazione molto attiva con il resto del gruppo. Questo clima di collaborazione è cresciuto ulteriormente durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, dove ho anche avuto l’opportunità di partecipare alla mia prima conferenza scientifica. Non una qualsiasi, ma la più grande conferenza internazionale di scienze della terra e dello spazio. Il solo parteciparvi è stata una rivelazione perché mi ha fatto capire che il mondo della ricerca è fatto da collaborazioni a livello mondiale con scienziati interessati ad argomenti e sfide comuni, qualcosa di molto più dinamico e stimolante rispetto all’immagine che ne avevo quando ho iniziato l’università.

Il secondo fattore, più legato alla scelta di proseguire con la carriera accademica, è legato alle caratteristiche dei progetti in cui mi sono trovato coinvolto. Come ho già detto, non ho scelto di fare un dottorato con l’ambizione iniziale di diventare un docente universitario. L’ho fatto perché in quel momento si era iniziato a parlare di come i dati messi a disposizione dai contatori intelligenti potessero servire a sviluppare modelli innovativi e perché sapevo che la ricerca di dottorato avrebbe contribuito a un importante progetto europeo. La cosa mi allettava particolarmente sia perché il progetto era innovativo e interessante sia perché sarei stato coinvolto in un’impresa collettiva che prevedeva numerose attività in collaborazione con diversi partner europei. Qualcosa di simile è successo dopo il dottorato. All’epoca avevo capito che le tematiche su cui avevo lavorato mi appassionavano e che il mondo della ricerca era un mondo in cui volevo rimanere, soprattutto per la grande libertà che concede e per la rilevanza globale delle sfide da affrontare nella gestione delle risorse idriche. Quasi per caso, tramite il Politecnico sono venuto a conoscenza del fatto che l’Einstein Center Digital Future di Berlino, grazie a una partnership pubblico-privato, finanziava diverse posizioni da Assistant Professor su argomenti di digitalizzazione legati a diverse tematiche, tra cui appunto l’acqua. Così ho partecipato al bando e l’ho vinto. Anche in questo caso, si è trattato di sapere cogliere un’opportunità che si è presentata al momento giusto.

Quali progetti hai per il futuro?

Sulla base di come si è svolto il mio percorso finora direi che è molto difficile fare previsioni! A parte gli scherzi, a Berlino mi trovo molto bene e mi piacerebbe continuare a fare ricerca qui per ora. Al momento abbiamo in cantiere diversi progetti, il gruppo di ricerca che ho creato quando ho iniziato a lavorare qui è cresciuto molto e l’idea è quella di capitalizzare questo sforzo. Certo, nel lungo periodo non mi dispiacerebbe tornare in Italia. L’università sarebbe lo sbocco più naturale ma non disdegnerei nemmeno posizioni di gestione della ricerca in organismi di ricerca europei o internazionali. Mi porrò il problema di come rientrare più seriamente quando inizierò a sentire troppo la mancanza delle montagne! Berlino è bellissima, ma molto piatta….

In che modo il tipo di ricerca che svolgi può influenzare i decisori nell’implementare soluzioni che vadano in direzione di uno sviluppo più sostenibile?

Quello che faccio insieme al mio gruppo di ricerca è sviluppare strumenti che permettono di prendere decisioni consapevoli, informate. Cerchiamo di generare informazioni utili ai vari decisori affinché le loro decisioni siano motivate da evidenze scientifiche. Nel caso della gestione delle risorse idriche, i decisori in questione sono tanti: decisori pubblici di carattere politico-amministrativo come le municipalità e i governi, decisori privati, come per esempio gli sviluppatori di tecnologie, ma anche semplici cittadini. Da questo punto di vista, noi sviluppiamo non soltanto decision support systems rivolti ai grandi decisori, pubblici o privati, ma anche strumenti educativi di awareness, volti a sensibilizzare l’utenza nei confronti di certi temi. Insomma, lo scenario è complesso e non è semplice trovare un compromesso ottimale tra gli interessi spesso divergenti degli stakeholder coinvolti. Gli strumenti che sviluppiamo cercano di restituire questa complessità e aiutano i decisori a prendere in considerazione gli interessi di tutte le parti in causa.

Un altro aspetto è quello legato agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) promossi dall’ONU: sebbene sia oggetto di un SDG specifico (SDG 6), l’acqua è un tema che li accomuna tutti. La nostra ricerca riguarda lo sviluppo di infrastrutture idriche resilienti (SDG 9) e aiuta a rendere le città più sostenibili (SDG 11). Ma l’acqua è anche legata all’agricoltura (SDG 2) e all’identificazione di agenti patogeni tramite i sistemi fognari, come è accaduto durante la pandemia di Covid-19 (SDG 3). Inoltre, sia in università sia tramite strumenti di sensibilizzazione rivolti ai cittadini, svogliamo un’attività educativa di qualità (SDG 4). Per finire, al tema dell’acqua sono legati anche gli SDG 7 (“Energia pulita e accessibile”) e 16, (“Pace, giustizia e istituzioni”): molti bacini idrici, infatti, sono gestiti da più Paesi e questo spesso crea situazioni di potenziale conflitto. Da tutti questi punti di vista, quella sull’acqua è una ricerca assolutamente strategica.

Come valuti i modelli di ricerca che prevedono una collaborazione tra università e imprese?

Se si parla di grandi progetti europei, il coinvolgimento delle imprese – grandi o medio-piccole – crea un buon ecosistema di scambio con la ricerca accademica. Questo modello, infatti, consente alle aziende di minimizzare il rischio finanziario legato agli investimenti in innovazione tecnologica. In Paesi come la Germania, dove c’è un background industriale forte, la collaborazione tra università e imprese è molto frequente e il modello può funzionare bene. Ovviamente non è l’unico modello: ci sono tematiche che, per loro natura, non rivestono un interesse primario per le aziende, come per esempio ricerche di carattere più teorico che non hanno una ricaduta economica immediata. Per questo è importante tutelare la libertà della ricerca, che consente di dare vita a più modelli.

Per quanto riguarda il coinvolgimento delle imprese, distinguerei due modelli. Il primo è quello in cui si tratta di sviluppare un progetto finanziato direttamente dall’industria. In questo caso, i partner industriali si rivolgono alle università alla ricerca di capacità e competenze di cui non necessariamente dispongono per risolvere i problemi pratici che devono affrontare. In questo scenario viene enfatizzato maggiormente l’impatto della ricerca accademica, un requisito che sta acquisendo un’importanza sempre maggiore anche per ottenere nuovi finanziamenti a livello europeo. È un modello che a mio avviso funziona bene ma che va costruito gradualmente. La chiave è trovare un punto d’incontro tra l’interesse operativo dell’azienda e la rilevanza della ricerca scientifica. Particolarmente importante, dal mio punto di vista, è la possibilità di ottenere risultati che, almeno in parte, possano essere resi pubblici e messi a disposizione della comunità scientifica internazionale. Il secondo modello, più raro per quanto ne abbia avuto esperienza, è quello delle partnership pubblico-privato che finanziano indirettamente la ricerca, come nel caso dell’Einstein Center Digital Future qui a Berlino. L’impresa di pubblici servizi e gestione delle risorse idriche di Berlino ha investito, insieme agli stakeholder pubblici, per finanziare la mia posizione ma non ha di fatto un potere decisionale sulle ricerche che svolgo. Essendo un partner, però, posso rivolgermi a loro per capire se quello che faccio è rilevante oppure no e da questa interazione possono nascere molti progetti. L’importante è mantenere un buon livello di comunicazione, collaborare per fare ricerca insieme.

Come descriveresti la tua esperienza al Politecnico di Milano e quanto è stata importante per la tua carriera?

L’esperienza al Politecnico di Milano è stata fondamentale e, nel complesso, molto positiva. Gli anni “milanesi” sono forse il periodo della mia vita che ricordo con più spensieratezza ed energia. Quando ho cominciato la triennale ero poco più di un teenager e ho sperimentato per la prima volta la libertà dai vincoli degli orari scolastici, la possibilità di uscire dal contesto in cui ero cresciuto, di conoscere persone con background e storie diverse dalla mia, ed è anche stato il momento in cui ho iniziato a studiare argomenti che mi interessavano davvero. Anche le amicizie più importanti risalgono agli anni del Politecnico, dove ho conosciuto perfino mia moglie!

A volte avrei voluto che il modello educativo fosse più simile a quello di altri Paesi, in cui, soprattutto a livello di corsi di laurea magistrali, l’approccio è molto più “pratico” e prevede fin da subito progetti di cui gli studenti hanno una responsabilità diretta. Ma in realtà mi sono reso conto che anche al Politecnico le cose stanno andando in questa direzione. Tutto sommato, devo riconoscere che il modello educativo italiano, che viene spesso bistrattato o non supportato con adeguate risorse, funziona molto bene perché offre un’ottima preparazione e mette i laureati nelle condizioni di giocarsi le proprie carte sia in Italia che all’estero.

Anche dal punto di vista della mia carriera l’esperienza al Politecnico è stata fondamentale sia per come mi ha formato sia per le opportunità che mi ha dato in termini di esperienze all’estero e di possibilità di esplorare il mondo della ricerca.

C’è qualche ricordo dei tuoi “anni politecnici” a cui sei particolarmente legato e che ti piacerebbe condividere?

Al di là dell’incontro con mia moglie, menzionerei una conferenza a Vienna a cui ho partecipato una settimana prima della mia laurea magistrale insieme a un gruppo di compagni di corso anche loro in procinto di laurearsi. Naturalmente, date le circostanze, l’abbiamo vissuta più che altro come una vacanza e alla conferenza siamo comparsi un giorno soltanto, quando dovevamo presentare il nostro lavoro… forse i miei dottorandi non dovrebbero leggere questa parte, comunque è stato un ottimo esercizio di team building! Questo stesso gruppo di amici si è “ritrovato” anche dopo la laurea: qualcuno, come me, aveva iniziato un dottorato, altri erano rimasti in università con un assegno di ricerca. È stato molto bello concludere la magistrale insieme e ritrovarsi l’anno successivo in una veste diversa, soprattutto perché da questo rapporto di amicizia sono nate tante discussioni stimolanti e tante collaborazioni scientifiche. Avere un gruppo di amici che mi sono poi ritrovato come colleghi è forse il ricordo più bello che ho del Politecnico.

Che consigli daresti a uno studente o a una studentessa che vorrebbe svolgere il tuo stesso lavoro?

La cosa più importante è capire se il mondo della ricerca è quello che lo/la appassiona, senza partire dall’ambizione preconcetta di voler intraprendere a tutti i costi una carriera accademica. È prima di tutto necessario capire se il lavoro concreto di ricerca e insegnamento è qualcosa che coinvolge. È un lavoro in cui passione e curiosità alimentano la parte più operativa. Come ho già detto, io ho avuto la grande fortuna di entrare in contatto con questo mondo già durante la laurea magistrale e, nel caso ce ne fosse la possibilità, consiglierei a tutti di provare a fare altrettanto. Il modo migliore è trovare dei mentori che possano introdurre nel mondo della ricerca e farne comprendere il funzionamento. Non solo all’inizio, ma in tutte le fasi della propria carriera.

Il secondo consiglio è quello di essere proattivi. Non bisogna nascondersi, ma manifestare le proprie competenze ed idee. Il mondo della ricerca offre molte opportunità ma bisogna cercarsele, entrare in contatto con le comunità scientifiche di riferimento, capire quali sono quelle a cui rivolgersi per portare avanti i propri progetti. Nel mio ambito, ci si trova spesso a dover comunicare con persone dai background molto diversi e per questo occorre sviluppare un profilo “multidisciplinare specializzato”, che sappia mettere a frutto le diverse capacità e competenze acquisite.

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