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Le nostre storie

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Fabio Violante

Ingegnere informatico con la passione per l’hardware e manager di successo, Fabio Violante è uno degli alumni del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria più noti alla tech-community italiana e internazionale per via del suo ruolo di CEO di Arduino, la piattaforma di prototipazione rapida open-source usata ogni giorno da milioni di designer, progettisti e aziende per dare vita in modo semplice e veloce a oggetti intelligenti e dispositivi digitali.

Quella di Fabio è una carriera brillante nata al Politecnico di Milano, dove ha contribuito a fondare una start-up che ha saputo cogliere le potenzialità di una rete internet ancora agli albori e si è fatta apprezzare a livello globale per i suoi servizi di consulenza e le sue attività nell’ambito dell’ingegneria del software. Poi l’acquisizione da parte di una grande società americana, in cui ha ricoperto un ruolo di grande responsabilità, e infine l’approdo ad Arduino, dove sta portando avanti progetti importanti che mirano a rendere ancora più completo e versatile il pacchetto di soluzioni offerto dall’azienda, guardando al futuro degli oggetti connessi e dell’Internet of Things.

Fabio, qual è stato il percorso accademico e professionale che ti ha portato dove sei oggi?

Dopo aver conseguito una laurea in Ingegneria Informatica al Politecnico di Milano, ho lavorato per un anno in Andersen Consulting, l’attuale Accenture, per poi rientrare al DEIB come dottorando sotto la supervisione del Prof. Fabio Schreiber. La mia attività di ricerca ha riguardato principalmente l’interazione uomo-macchina per sistemi safety-critical e, in subordine, i sistemi peer-to-peer e la caratterizzazione statistica delle prestazioni dei sistemi internet. Grazie all’interessamento del Prof. Giuseppe Serazzi e del Prof. Paolo Cremonesi, dalle mie ricerche in quest’ultimo ambito è nata Neptuny, start-up che si occupava di misurare le prestazioni dei siti internet.

Tralasciando gli aspetti più tecnici, l’idea alla base di Neptuny era quella di restituire alle aziende una percezione della qualità del servizio che offrivano a partire da un monitoraggio esterno. All’epoca – parlo dell’inizio del nuovo millennio – si trattava di un’idea pionieristica. L’unica modalità di accesso alla rete erano i modem e noi avevamo a nostra disposizione un’infrastruttura di modem che ci consentiva di misurare le prestazioni dei siti internet e la qualità dei provider. Da questa idea un po’ naif di un servizio SAS ante litteram è nata Neptuny. La società si è poi evoluta in due direzioni diverse: da un lato verso la consulenza alle aziende nostre clienti, che ci chiedevano di aiutarle a migliorare le prestazioni dei loro siti internet, dall’altro verso altre attività in ambito software, sempre basate sulla statistica applicata ai dati tecnici. È in questa fase che abbiamo sviluppato Caplan, una piattaforma finalizzata al capacity planning di grandi data center ideale per soddisfare le esigenze della nostra clientela, fatta di aziende di grandi dimensioni come compagnie telefoniche, compagnie assicurative o banche che avevano bisogno di strumenti informatici all’altezza della mole di dati che gestivano.

L’azienda ha avuto fin da subito un grande successo. Abbiamo iniziato nell’ambito delle telecomunicazioni, ci siamo espansi a quello finanziario e nell’arco di un decennio siamo diventi una realtà attiva a livello globale finché, nel 2010, l’azienda è stata acquisita da BMC Software, società americana che opera nel settore del monitoraggio di infrastrutture informatiche complesse. Dopo l’acquisizione, Neptuny si è divisa in due: dalla parte che si occupava di consulenza è nata Moviri, azienda ancora oggi molto legata al Politecnico che lavora su intelligenza artificiale e sistemi di recommendation, mentre la parte che si occupava di sviluppo software, di cui facevo parte anch’io, è confluita in BMC. Poco dopo il mio ingresso in BMC sono stato nominato Chief Technology Officer di una delle quattro business unity della società a livello globale, incarico che ho ricoperto fino al 2015, quando ho deciso di tornare a un mio vecchio amore: Arduino.

A quando risalgono i tuoi rapporti con Arduino?

I miei rapporti con Arduino risalgono ai tempi del dottorato. Mi capitò di visitare una neonata scuola di design dove mi chiesero se fossi disposto a insegnare ai giovani designer qualche rudimento di ingegneria elettronica. Io declinai l’offerta perché mi occupavo soprattutto di ingegneria del software ma feci il nome del mio amico Massimo Banzi, che poco dopo ottenne l’incarico e proprio in quella scuola fondò Arduino. Negli anni successivi le nostre strade si separarono per poi ricongiungersi nel 2015 con il mio ingresso nella società, di cui nel giro di due anni sono diventato amministratore delegato.

Oggi Arduino è un’azienda molto più grande rispetto a quando ho iniziato ad amministrarla, sia in termini di volume di business che di complessità. È una vera e propria multinazionale con una sede centrale in Svizzera che si occupa di Finance & Marketing, una filiale italiana che si occupa di Research & Development e una filiale a Malmö, in Svezia, che si occupa di applicazioni in ambito scolastico, cioè di prodotti specifici per scuole e università. Oltre a queste, esiste anche una filiale negli Stati Uniti che si occupa della commercializzazione dei prodotti destinati al mercato americano e globale.

Di cosa si occupa Arduino?

Arduino è nata come strumento di prototipazione facile da utilizzare e con la particolarità di essere open source dal punto di vista dell’hardware e del software. Essenzialmente, si tratta di una scheda hardware che utilizza un “dialetto” di C++ e può essere tranquillamente utilizzata da persone prive di competenze specifiche in campo elettronico. È una piattaforma attraverso la quale i designer possono progettare e costruire oggetti intelligenti. Grazie a un linguaggio e a un ambiente di sviluppo molto semplici, i creativi possono dare vita a interazioni molto interessanti, risolvendo problemi pratici e apprendendo allo stesso tempo le basi dell’elettronica.

Partita come strumento destinato ai designer, grazie al passaparola e a una strategia comunicativa vincente, in breve tempo Arduino si è diffusa in ambito universitario, dove i docenti l’hanno adottata come piattaforma per insegnare interi corsi di physical computing. Da lì si è contaminato tutto il mondo dell’hobbistica e intorno ad Arduino è nata una galassia di maker e artigiani digitali che hanno cominciato ad applicare le stesse tecniche per risolvere problemi quotidiani, dall’irrigazione delle piante sotto casa alla costruzione di robot, arrivando a creare da zero nuove professioni.

Si pensi al mondo dei droni: i primi droni sviluppati in ambito non militare si basavano su piattaforme Arduino. Qualcosa di simile è successo con le stampanti 3D: molti ragazzi hanno cominciato a costruire stampanti 3D con un “cervello” Arduino, rendendo così molto più accessibile una tecnologia che fino a pochi anni prima era vincolata da brevetti molto complessi appannaggio di pochissime corporation. Ne è nato un vero e proprio movimento che oggi conta svariati milioni di persone. Il nostro sito web conta circa 40 milioni di utenti unici ogni anno, il che significa che l’ambiente di sviluppo open source che abbiamo creato viene scaricato 40 milioni di volte all’anno. Sono numeri da retail, nonostante si tratti di un prodotto che ha bisogno di essere programmato. Arduino è l’azienda dietro questo movimento fatto di oggetti fisici, ambiente di sviluppo e questa comunità che utilizza le nostre piattaforme per scambiarsi idee, risolvere problemi, inventare nuovi sensori, nuove applicazioni…

Oggi siamo attivi su tre mercati: a quello “storico” dei maker (hobbistica e fai da te) si sono aggiunti, in ordine di tempo, quello dell’educazione – dove abbiamo messo a punto un’offerta curricolare per i docenti interessati all’insegnamento della programmazione e dell’hardware – e quello professionale, destinato alle aziende che utilizzano Arduino come strumento di prototipazione. Cerchiamo di supportare queste aziende non solo nella fase di prototipazione ma anche fornendogli strumenti semplici da utilizzare per realizzare applicazioni di IoT, retrofitting di impianti esistenti, intelligenza artificiale e machine learning. Anche in quest’ambito, il nostro obiettivo è favorire la creatività rendendo la tecnologia più semplice da usare.

In questo momento a cosa stai lavorando? Quali sono i tuoi progetti per i prossimi anni?

Attualmente Arduino sta cercando soprattutto di mettere a punto soluzioni che soddisfino le esigenze del mercato professionale. Dato che la tecnologia necessaria per realizzare oggetti intelligenti è molo complessa, abbiamo pensato di semplificarla, fornendo alle aziende sia dei “mattoni base” che servono da punto di partenza per sviluppare altre tecnologie sia “soluzioni chiavi in mano” che consentono, per fare soltanto un esempio, di implementare piccole automazioni a livello di prodotto.

L’altro grande progetto a cui stiamo lavorando prevede di integrare la nostra offerta di hardware e prodotti di base con una piattaforma cloud che abbiamo lanciato un paio d’anni fa e che conta già decine di migliaia di utenti, allo scopo di rendere i dispositivi intelligenti sempre più connessi. Mi riferisco, per esempio, alla possibilità di controllare i dispositivi da remoto tramite una app mobile o di realizzare training in cloud per machine learning e intelligenza artificiale.

In pratica stiamo proponendo al mercato un pacchetto di soluzioni sempre completo, che va dagli elementi di base che consentono di costruire oggetti intelligenti fino alla possibilità di programmarli e di interagire con essi tramite un’infrastruttura cloud molto avanzata.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

Per me che vengo dall’ingegneria del software – dove esiste la possibilità di migliorare continuamente i prodotti tramite aggiornamenti immateriali che non pongono problemi legati alla produzione, alla distribuzione o alla logistica – l’aspetto più affascinante è forse quello di aver imparato cosa significhi costruire oggetti fisici, con tutte le complessità, i problemi e le limitazioni che questa fisicità comporta.

Un altro degli aspetti che mi rendono fiero del mio lavoro è l’impatto che un’azienda come Arduino ha sulla società. Tantissimi giovani e giovanissimi decidono di avvicinarsi alle discipline STEM perché, grazie ad Arduino, scoprono di essere in grado di realizzare progetti che prima sembravano impossibili. Arduino stimola le persone ad “accendere il cervello”, a liberare la creatività, a diventare protagonisti attivi dell’innovazione tecnologica trasformando le proprie idee in realtà, anche solo in forma prototipale. Questa esperienza spinge molti ragazzi e ragazze – creativi, sensibili ai temi dell’ambiente, del riciclo e del riuso – a intraprendere la strada dell’ingegneria o di altre discipline tecnologiche perché gli dimostra che tutto questo è possibile. È un aspetto abbastanza unico del mio lavoro, nonché una delle motivazioni principali che mi hanno spinto ad accettare questo incarico.

Da questo punto di vista sono molto importanti anche i progetti di Arduino legati al mondo dell’istruzione…

Assolutamente sì! Arduino veniva già utilizzato spontaneamente da alcuni insegnanti ma per allargare sempre di più la quota di docenti in grado di trasmettere questa passione ai loro studenti abbiamo deciso di lavorare insieme a loro per capire come aiutarli a risolvere eventuali difficoltà. Mettere il maggior numero di insegnanti nelle condizioni di approcciare con fiducia l’insegnamento di materie STEM è molto importante per noi e per questo abbiamo dedicato investimenti specifici a questo tema.

Venendo alla tua esperienza di studente e dottorando al Politecnico di Milano, quanto è stato importante per te, umanamente e professionalmente, frequentare un’università come il Politecnico? Tra le cose che hai imparato ce n’è stata qualcuna che ti è stata particolarmente utile quando si è trattato di muovere i primi passi nel mondo del lavoro?

Innanzitutto, distinguerei il periodo della laurea da quello del dottorato. Il periodo della laurea è stato molto formativo per via dell’ampiezza dell’offerta didattica del Politecnico, che agli insegnamenti puramente quantitativi come ingegneria, fisica e matematica affiancava corsi estremamente interessanti di economia, statistica e matematica applicata che in seguito – quando mi sono trovato, ancora dottorando, a fare l’amministratore delegato della mia prima società – mi sono tornati molto utili. Pur essendo un informatico, mi sono laureato con una tesi in Bioingegneria e, in qualità di responsabile del laboratorio di Informatica Medica diretto dal Prof. Francesco Pinciroli, ho avuto modo di accedere a internet “in anteprima”. Si parla della metà degli anni ’90, epoca in cui la rete così come la conosciamo oggi era ancora qualcosa di inimmaginabile. In quel periodo ho avuto l’opportunità di costruire molte relazioni, di lavorare con grandi quantità di dati e di sperimentare senza vincoli né limitazioni. Questa libertà è stata molto importante e mi ha consentito di avere accesso a tutto ciò che era disponibile per quanto riguarda lo sviluppo software.

Il dottorato è stata un’esperienza particolare perché lasciava molto spazio alle iniziative del singolo e molto dipendeva da com’era strutturato il gruppo di lavoro di cui si faceva parte. Nel mio caso, si trattava di un gruppo poco strutturato che mi ha dato la libertà di gestire la mia attività di ricerca in modo abbastanza autonomo. È un’esperienza che mi ha fatto crescere molto dal punto di vista professionale perché mi ha insegnato come gestire il tempo e le priorità. E se, da un lato, mi ha fatto capire di non essere tagliato per la carriera accademica, dall’altro, il dottorato mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con moltissime persone e con moltissime aziende, che spesso visitavano i laboratori del Politecnico in cerca di soluzioni a problemi particolarmente complessi.

C’è un aneddoto divertente risalente ai tuoi “anni politecnici” che ti piacerebbe raccontare?

L’episodio più buffo mi è capitato all’epoca in cui stavo scrivendo la tesi di laurea. Da studente fuori sede, oltre a seguire i corsi all’università e a prepararmi per gli esami facevo anche qualche lavoretto per pagarmi l’affitto a Milano. In particolare, in quel periodo facevo il tecnico di laboratorio per l’Università Bocconi e lavoravo anche come tecnico informatico per Hewlett-Packard. Ormai con l’acqua alla gola, a pochi giorni dalla consegna, per auto-costringermi a finire di scrivere la tesi, ho chiesto al responsabile dell’edificio di chiudermi nel laboratorio per tutto il fine settimana, lasciandomi dormire lì per due notti. È stata un’esperienza molto sfidante ma alla fine c’è l’ho fatta a consegnare la tesi in tempo!

Per finire, che consigli daresti a uno studente o a una studentessa di Ingegneria Informatica che aspirano a lavorare nel tuo settore?

Agli ingegneri informatici consiglieri soprattutto di guardare all’hardware con uno sguardo diverso da quello a cui sono abituati. Spesso chi si occupa di software pensa che l’hardware sia qualcosa di complicatissimo, intoccabile, difficile… Ma oggi è fondamentale comprendere l’architettura dei calcolatori perché programmare questi dispositivi sta diventando sempre più complesso per ragioni che sono strettamente legati alla struttura dell’hardware e che molti programmatori non sono abituati a prendere in considerazione, come il consumo energetico o la durata della batteria. Sapere come sono fatti i dispositivi su cui “girano” i programmi, comprenderne la complessità ed essere consapevoli del fatto che questa complessità può essere dominata: tutto questo è molto importante per un ingegnere informatico.

Il secondo consiglio è quello di non trascurare le materie quantitative. Nonostante oggi la tendenza sia quella di lavorare con materiali apparentemente semplici perché già messi a punto da qualcun altro, ogni tanto è necessario aprire il cofano della macchina, mettere le mani sul motore e capire come funziona. E lo strumento per farlo continua a essere la matematica: quella delle reti neurali ma anche la statistica. Avere una preparazione solida in queste discipline può fare la differenza anche sul mercato del lavoro perché non sono molte le persone in grado di occuparsi di dati e machine learning. Sono figure professionali che saranno molto importanti in futuro, quando molte delle cose con cui interagiamo nella vita quotidiana diventeranno oggetti intelligenti e connessi.

Insomma, quello che voglio dire è che sperimentare e fare esperienza sul campo sono cose molto importanti. Gli ingegneri informatici tendono a guardare i problemi in maniera astratta ma per avere successo in un settore come questo è necessario sporcarsi le mani, cercare di capire le esigenze di utenti e clienti, imparare ad ascoltare il mondo e le persone che ci circondano. Per questo occorre anche non sottovalutare l’interaction design, vale a dire la capacità di progettare oggetti ben concepiti dal punto di vista dell’interazione uomo-macchina. Una certa sensibilità nei confronti di questi temi spesso fa la differenza tra un progetto di successo e uno che non funziona.

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