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Le nostre storie

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Riccardo Accolla

Riccardo Accolla è stato uno dei primi studenti del Politecnico di Milano a laurearsi in Ingegneria Biomedica.

La sua passione per la ricerca sui sistemi sensoriali da un lato e il desiderio, tipico degli ingegneri, di vedere realizzate da un punto di vista commerciale le innovazioni tecnologiche provenienti dalla ricerca di laboratorio hanno rappresentato la chiave di volta di una carriera che, a partire dagli anni del dottorato, conseguito presso il Politecnico federale di Losanna, si è sempre mossa lungo il confine tra la ricerca di base e l’industria alimentare e che alla fine, dopo diversi anni trascorsi in Svizzera, lo ha portato negli Stati Uniti.

Qui ha fondato una società di consulenza e, dal 2018, ha iniziato a collaborare con Ripe.io, un’innovativa startup che sfrutta la tecnologia blockchain per digitalizzare le filiere agroalimentari allo scopo di incrementarne tracciabilità, qualità e sostenibilità. 

Riccardo, parlaci un po’ di te: qual è la tua storia?

Ho iniziato a studiare al Politecnico di Milano nel 1996 e nel 2001 mi sono laureato in Ingegneria Biomedica. Dopo la laurea, ho lavorato per due anni in un’importante azienda biomedicale, la Baxter, ricoprendo una posizione di “marketing tecnico”. Fin dai tempi dell’università, però, ho sempre coltivato la passione per lo studio dei sistemi sensoriali: non a caso, nella mia tesi di laurea mi sono occupato del sistema uditivo, per la precisione della propagazione dei campi elettromagnetici attraverso l’udito e degli effetti dei primi cellulari sul sistema uditivo.

Così, nel 2003 ho colto l’opportunità di svolgere un dottorato di ricerca in Svizzera, presso l’École Polytechnique Fédérale di Losanna, dove era appena stato inaugurato uno dei più grandi centri di neuroscienze al mondo, il Brain Mind Institute. Negli anni del dottorato mi sono occupato del sistema gustativo, che all’epoca era un campo ancora relativamente inesplorato, sul quale non esisteva molta letteratura scientifica. Si trattava tra l’altro di un programma di dottorato in collaborazione con Nestlé, quindi particolarmente attento alle possibili applicazioni industriali della ricerca di base.

Nel 2007 ho conseguito il titolo di dottore di ricerca e sono stato subito reclutato da Firmenich, azienda svizzera tra le più importanti al mondo per quanto riguarda la produzione di profumi e aromi, dove mi sono occupato di formulazioni innovative. Dopo un periodo di tre anni trascorso a Ginevra, mi è stato proposto di spostarmi negli Stati Uniti, dove l’azienda stava lanciando un piccolo gruppo di innovazione legato allo sviluppo di nuovi ingredienti per l’industria alimentare. Nello specifico, si trattava di ingredienti che riducessero la quantità di zucchero, di grasso e di sale negli alimenti mantenendo le stesse caratteristiche organolettiche. Il ruolo che avrei dovuto ricoprire era quello di responsabile della sezione Discovery: la mia funzione sarebbe stata quella di fungere da interfaccia tra l’azienda e la ricerca di base, andando alla ricerca di innovazioni scientifiche che avessero il potenziale per essere utilizzate nello sviluppo di nuovi prodotti.

Ho accettato con entusiasmo e mi sono trasferito negli Stati Uniti, dove ho avuto modo di interagire con numerose istituzioni accademiche ma soprattutto con tantissime startup, presentando all’azienda le novità più interessanti per quanto riguarda – per fare solo un esempio – l’utilizzo dei recettori del gusto nello screening di nuovi ingredienti che potessero essere sviluppati e approvati per essere poi inseriti nelle formulazioni di cibi e bevande.

Quest’esperienza a stretto contatto con il mondo delle startup mi ha convinto a intraprendere a mia volta un’avventura imprenditoriale e così nel 2014 ho fondato A-T4H (acronimo di “Taste for Health”), una società di consulenza che ha l’obiettivo di supportare le startup nello sviluppo e nella commercializzazione di nuovi ingredienti nel campo della nutrizione, della salute e del gusto. Questa attività mi ha consentito di lavorare a stretto contatto con moltissime realtà, tra cui Ripe.io, con cui ho iniziato a collaborare nel 2018, inizialmente come consulente per un progetto chiamato “Internet of Tomatoes” sulla digitalizzazione della filiera di pomodori prodotti negli Stati Uniti e successivamente commercializzati da una popolare catena di insalate particolarmente attenta alla qualità degli ingredienti.

L’esperienza è stata talmente positiva che tre anni fa ho accettato la proposta di lavorare con la società a tempo pieno, in veste di responsabile di gestione per tutti i progetti che riguardano la filiera dell’agro-alimentare. 

Di che cosa si occupa esattamente Ripe.io?

Ripe.io fornisce un’infrastruttura software che sfrutta l’ingegneria dell’informazione, e in particolare la tecnologia blockchain, per digitalizzare, e quindi rendere più trasparente, la filiera agro-alimentare, garantendone la massima tracciabilità, qualità e sostenibilità. Una piccola parte dei nostri progetti coinvolge direttamente il consumatore finale, che in questo modo ha la possibilità di conoscere con esattezza la provenienza del cibo che consuma, ma il grosso della nostra attività riguarda gli anelli iniziali della filiera, in un’ottica prevalentemente b2b. Lavoriamo molto su progetti legati alla sicurezza: la nostra tecnologia, per esempio, rende molto più semplice e veloce il tracciamento dei lotti in caso di contaminazione batterica. Il nostro scopo è quello di incrementare la visibilità e la trasparenza all’interno della filiera, spesso e volentieri per consentire alle aziende agricole di ricevere tutte le informazioni necessarie per migliorare le proprie pratiche e per allargare i propri margini di profitto, riducendo il numero degli intermediari. In sostanza, la nostra piattaforma colleziona e connette dati provenienti da diverse fonti – sistemi gestionali, sensori installati nei terreni agricoli, informazioni trasmesse direttamente dagli agricoltori, ecc. – rendendo tracciabili e trasparenti tutte le fasi della catena di distribuzione dei prodotti. Utilizzare la blockchain in questo campo presenta due grossi vantaggi. Il primo è che la piattaforma non è gestita da un attore centrale: ognuno può inserire le informazioni in modo indipendente, decidendo quali dati condividere e con chi condividerli, nell’ottica di una relazione tra pari. Il secondo è che ogni inserimento e ogni successiva modifica dei dati inseriti lasciano una traccia immutabile, garantendo così la tracciabilità di ogni intervento. 

A costa stai lavorando in questo momento e quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Al momento con Ripe.io sto lavorando principalmente a due progetti.  

Il primo riguarda la tracciabilità e la qualità di materie prime di grande valore, in particolare il cacao. Ho sviluppato una buona conoscenza della catena produttiva del cacao e posso dire che si tratta di un ambito estremamente interessante ma anche ricco di sfide perché spesso presenta problemi legati allo sfruttamento del lavoro minorile, soprattutto nell’Africa occidentale, alle scarse garanzie della qualità dei prodotti, alla presenza di intermediari che schiacciano i profitti degli agricoltori… Insomma, è un settore in cui l’utilizzo della blockchain potrebbe sicuramente avere un impatto positivo sulle condizioni di vita dei piccoli imprenditori agricoli.  

Il secondo progetto, invece, riguarda la filiera della canna da zucchero in Belize e coinvolge direttamente il Ministero dell’Agricoltura del paese. Lo scopo, anche in questo caso, è quello di migliorare le condizioni di vita degli agricoltori e di agevolare l’accesso al credito bancario da parte delle piccole aziende agricole, che grazie alla nostra piattaforma potranno realizzare delle previsioni più dettagliate e pianificare in modo più efficiente l’attività. 

Per quanto riguarda il futuro dell’azienda e della tecnologia blockchain, ritengo che la nuova frontiera di sviluppo sia rappresentata dalla sostenibilità. Un numero sempre maggiore di investitori, istituzionali e non, ormai considera la sostenibilità – che trova espressione nei cosiddetti criteri ESG – un parametro fondamentale per scegliere in quali attività investire. Una piattaforma come la nostra consentirebbe alle aziende agricole di monitorare, e quindi di migliorare, i livelli di sostenibilità del proprio business, attraendo così maggiori investimenti. È in questa direzione che svilupperemo la nostra tecnologia nei prossimi anni.  

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

Ciò che senza dubbio mi dà più soddisfazione è il rapporto diretto con gli operatori della filiera agroalimentare. Tutti noi mangiamo, abbiamo memorie legate al cibo e una relazione affettiva con il territorio e con ciò che produce, ma la maggior parte di noi non ha l’opportunità di toccare con mano il lavoro e l’impegno che si nascondono dietro agli alimenti che consumiamo ogni giorno. È molto appagante per me avere la possibilità di conoscere da vicino questa realtà, di aiutare concretamente gli agricoltori a migliorare le proprie condizioni di vita, spesso e volentieri sporcandomi le mani in senso letterale, come faccio tutte le volte che c’è bisogno di installare sensori nei loro terreni. Anche l’opportunità di imparare cose sempre nuove, in ambiti per me ancora inesplorati, è qualcosa di entusiasmante: quando facevo ricerca accademica non avrei mai pensato di lavorare nella filiera agroalimentare, ma con il tempo mi sono appassionato alla sua complessità e questo mi regala grandissime soddisfazioni. 

Quanto è stato importante per te studiare al Politecnico di Milano e qual è la cosa più utile che hai imparato durante la tua permanenza al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria?

L’esperienza del Politecnico è stata fondamentale per me e anche piuttosto gratificante perché – diciamolo pure – è un’università che richiede molto impegno. Le cose che ho imparato quand’ero studente, soprattutto per quanto riguarda l’ingegneria di base e l’applicazione dei modelli matematici alle scienze della vita, mi sono state estremamente utili nell’arco di tutta la mia carriera, non soltanto durante il dottorato ma anche quando, nella mia posizione attuale, ho dovuto creare un modello di dati capace di legare informazioni provenienti dalla filiera agricola (condizioni del suolo, condizioni di trasporto, ecc.) alla previsione di come i prodotti potessero essere valutati da un punto di vista sensoriale. Se avessi studiato soltanto biologia o agronomia non avrei potuto sviluppare niente di simile, o avrei dovuto acquisire in seguito e con maggior fatica le competenze necessarie.  

Un altro aspetto di fondamentale importanza legato al Politecnico di Milano è il network globale che è riuscito a creare nel corso degli anni. Personalmente, l’essere membro dell’Associazione Alumni del Nord America mi ha offerto diverse opportunità di espandere la mia rete professionale, ho partecipato con grande piacere a numerosi panel e, grazie a questo legame, continuo a collaborare con l’università in cui mi sono laureato tanti anni fa! 

C’è un ricordo dei tuoi “anni politecnici” a cui sei particolarmente legato o un aneddoto divertente che vorresti condividere?

Ho tantissimi ricordi dei miei anni politecnici, è stato un periodo molto bello della mia vita. I primi che mi vengono in mente riguardano gli esami. Era l’epoca in cui io e i miei compagni di università stavamo scoprendo la bioingegneria e uno dei corsi più appassionanti, almeno per me, era quello del Prof. Emanuele Biondi sull’elettromagnetismo. Tra gli studenti correva voce che, in sede d’esame, al primo studente a essere chiamato venisse rivolta quasi sempre la stessa domanda. Così, quando studiai per l’esame, mi preparai molto bene su quella domanda, nell’eventualità in cui fosse toccato a me essere interrogato per primo. Avevo la reputazione di essere piuttosto fortunato agli esami e in effetti così fu perché il giorno dell’esame fui il primo studente a essere interrogato. Ricordo che, quando fu chiamato il mio nome, gli amici che avrebbero dovuto sostenere l’esame quello stesso giorno iniziarono a rumoreggiare dal fondo dell’aula, soprattutto quando sentirono che la prima domanda che il docente mi rivolse era effettivamente quella che ci aspettavamo e per la quale ci eravamo preparati. Purtroppo alla seconda e alla terza domanda non risposi altrettanto bene, così alla fine il Prof. Biondi commentò l’esame dicendo: “Guardi, le do la lode ma non sono troppo convinto”. A quelle parole, dal fondo dell’aula si sentì un’esplosione di rabbia incontenibile da parte dei miei amici! 

Per concludere, che consigli daresti a uno studente di Ingegneria del Politecnico che vorrebbe intraprendere una carriera nel tuo settore?

Agli studenti di Ingegneria del Politecnico, e in particolare a quelli del corso di laurea in Ingegneria Biomedica, direi di non pensare che una carriera come la mia, a stretto contatto con le scienze della vita, sia loro preclusa o particolarmente difficile da intraprendere. Al contrario, una laurea al Politecnico di Milano e la formazione ingegneristica che garantisce rappresentano un enorme vantaggio anche in questo settore. 

Inoltre, direi loro di non perdere il gusto per l’esplorazione e soprattutto di non avere paura di spostarsi e di fare esperienze all’estero, che per me sono state fondamentali, sia durante gli studi che dopo. 

 

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